GIULIO ROMANO E DINTORNI.
BAGLIORI D’ARTE PER LA LUCE DI UN GENIO
Dalla Light Art alla Black Art, passando per la scienza

VITTORIO ERLINDO

Dal nero dell’universo, miliardi di stelle lontane rischiarano milioni di galassie per dar luce ai mondi. Illuminando i cieli, hanno consentito ad Hubble di fotografare spazi lontanissimi fino al cuore e al principio della materia che ha dato vita alla vita del nostro pianeta e ad altri mondi. La realtà di queste immagini hanno ravvivato la nostra immaginazione, sorpreso i nostri stupori, assegnato limiti e consentito altre possibilità ai nostri saperi. Una nuova idea del tempo, ci ha resi meno incerti sull’inizio del tutto, ma più inquieti sul senso delle nostre esistenze. Da miliardi anni, le stelle stanno dando luce alla conoscenza e alla vita.
Un intelligente e divertente film, Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber, tratto dal romanzo dello scrittore statunitense Jonathan Safran Foer, dà luce agli oggetti dei ricordi che illuminano a loro volta il vero e nuovo senso della vita di Jonathan, del protagonista del film, e di noi tutti. La luce disegna e colora le cose, i paesaggi, gli ambienti e le città, rischiarando così i cuori e la mente degli uomini.
Stefen Hawking, non diversamente di Hubble, ci ha illuminati sulla percezione e la natura del tempo oltre che sulla straordinaria capacità della mente umana. La scienza ci avverte infatti che l’uomo normale utilizza il 5% delle proprie capacità mentali, i sapienti dal 6 all’8%, mentre i delfini riescono ad utilizzare il cervello fino al 20%. Se, anche solo recuperassimo una piccola parte di quel 15% di deficit che abbiamo coi delfini, la Terra potrebbe essere avanti di 100.000 anni. Avremmo dato soluzioni a problemi oggi irrisolvibili.
Non abbiamo dato luce ancora alle possibilità della mente, ma per fortuna per alcuni miliardi anni ancora abbiamo Ilios, stella grande, generosa e vicina che ha dato corpo alle albe e ai tramonti, scaldato la terra, operato la trasformazione delle cose viventi, illuminato a giorno le campagne, le montagne e i mari e i paesi, lasciando alla luna il compito di dar forma alle ombre della sera e dandoci ancora tempo per illuminare le nostre menti.

Il sole nostrum combinato al quotidiano giro di valzer della terra, dà scansione ritmica alla nostre vite più di quanto riescano fare gli orari di lavoro, gli appuntamenti, i quadranti di qualsiasi torre campanaria, o le ore, i minuti, i secondi, cadenzati da orologi o telefonini, e tuttavia le distanze fisiche e psicologiche tra il giorno e la notte sono sempre più fievoli, a volte impalpabili. Bisognerebbe pensare di più al ruolo regolatore dei sistemi planetari e della luce sulle nostre vite, quella che James Turrel definisce la vitamina naturale del nostro corpo, cercando di impedire per quanto possibile il capovolgimento dei ritmi della vita. L’ingresso potente, a volte anche prepotente, della luce artificiale nella quasi totalità del paesaggio terrestre, ha cambiato la vita degli uomini e le immagini notturne di interi continenti.

La sfida eterna tra il buio e la luce non si è mai conclusa e mai si concluderà. L’uomo, nella breve storia della sua apparizione sulla terra si è reso protagonista di innumerevoli invenzioni che ci consentono oggi di essere illuminati 24 h. e quella di Viganella è una di queste. Questo piccolo paese di montagna della Val d’Ossola che per tre mesi è completamente al buio, rifacendosi ad un espediente degli egizi per illuminare all’interno le proprie piramidi, hanno posizionato una lastra di acciaio specchiato che restituisce il sole che le montagne impedivano di illuminarlo.

L’umanità, dal fuoco, agli utilizzi di lastre di bronzo per orientare i fasci di luce, alle candele, alle lampade ad olio, all’illuminazione a gas, alla corrente elettrica, alla lampadina elettrica, ai neon, alle luci alogene, alle nuove scoperte dei led, degli oled, a partire dalla fine dell’Ottocento, ha dato luogo ad una continua, velocissima e incontrollabile progressione verso l’illuminazione totale. Tuttavia, dopo secoli di ricerche per avere più strumenti per creare la luce artificiale, sono proprie di questo tempo, le ricerche sia per la realizzazione in laboratorio del buio assoluto, che per ricreare fonti di luce naturale. Una contraddizione in termini, quest’ultima, perché ciò che è artificio è in opposizione filosofica a ciò che è naturale. Penso che però sia il segno di una diversa attenzione dell’uomo per la natura, che dopo un secolo di consumi di ingenti materie prime per produrre quantità sempre più grandi di energia elettrica, sta cercato forme più sostenibili di illuminazione proprio copiando dalla natura, e non solo guardando all’energia solare, eolica o idraulica, ma anche ai diversi strati dell’atmosfera, alle nanotecnologie applicate alla velocità e al passaggio della luce nei diversi materiali come vedremo più avanti con la ricerca di Coelux.
Nel caso della ricerca del buio assoluto, e della realizzazione del Vantablak è anche la sottolineatura che senza il buio la luce non esisterebbe e che quindi occorre tuffarsi in quel buio infinito e totale che la scienza ha immaginato prima del big bang e della comparsa delle stelle, un tuffo che ci invita a riandare all’origine profonda di noi stessi oltre che dell’Universo.

Entrambe le ricerche, quella del buio assoluto e quella della produzione artificiale di luce apparentemente naturale, hanno come punto di riferimento il crinale che separa buio e luce. Entrambe, sono l’una il compendio dell’altra.
Questa ricerca è importante in sé per gli sviluppi che a livello industriale si potranno avere, ma sta anche a significare che nel nero anche assoluto è contenuto all’infinito sempre un raggio di luce.
Le ricerche, a differenza delle scoperte casuali, non nascono mai per caso, di solito discendono da una intuizione individuale che ha la necessità di creare innovazione e che trova poi un senso sociale e spesso un consenso commerciale.

L’Istituto di tecnologia avanzata dell’Università del Surrey, specializzata nella produzione a bassa temperatura di nanomateriali, di recente ha sperimentato con apparecchiature scientifiche di nuovissima generazione la capacità di assorbire quasi totalmente la luce che colpisce qualsiasi oggetto. In questi laboratori si è arrivati ad assorbire il 99.965% della luce, lasciandone, per ora, solo una frazione (lo 0,0035%) che l’occhio umano non è però in grado percepire.
È il nero più nero che sia mai stato visto e realizzato. Il suo nome industriale è Vantablack (Vertically Aligned Nanotube Arrayblack) realizzato con nanotubi di carbonio allineati verticalmente. La particolarità di questo materiale, è quella di rendere visivamente piane e nere superfici che in realtà sono accartocciate, ondulate o comunque irregolari. Oggetti dipinti con il Vantablak scompaiono su superfici in Vantablak. La scienza sembra riprendersi il senso di stupore che è proprio del processo artistico, ma in realtà l’ambito creativo della scienza non è da meno di quello dell’arte. Per sentieri diversi non fanno altro che studiare ipotesi, fare prove e realizzare oggetti e strumenti completamente nuovi che aprono a strade altrettanto sconosciute. La scoperta del nero assoluto è straordinaria non solo per la scienza e l’industria, ma anche per la stessa light art che partendo dal buio totale potrà sfruttare e cimentarsi in nuove ricerche di opere luminose o addirittura in opere di black art, come hanno sperimentato nel secolo passato l’artista Kazimir Malevich con il suo quadrato nero del 1915, o Alberto Burri coi suoi neri cellotex degli anni 70, senza dimenticare naturalmente l’opera di Mark Rothko, o di Lucio Fontana con la sua luce nera. I monocromi neri, sperimentati con profonda consapevolezza dalle avanguardie artistiche del Novecento sono il “punto zero “, di una pittura, in cui il colore non è più il mezzo di costruzione dell’opera, ma volontà pura di un intento pittorico dove visibile/ invisibile convivono costringendoci ad un ripensamento sulla luce nell’arte, sul sistema percettivo umano e più in generale sulle nostre conoscenze. La ricerca del buio assoluto ci rimanda ad un tempo in cui attraverso il Bing Bang ha avuto origine l’universo. Artisti importanti ci hanno riportato con l’arte della luce all’idea del buio come elemento indispensabile perché la luce abbia un suo spessore e una maggiore capacità di incidere nei luoghi come nel caso dell’intervento di James Turrel nella Murren Residence di Las Vegas (foto di Rob Bear) in cui la scala piramidale in nero fa da altare alla luce notturna del cielo, o di un’altra opera, la più grande installazione permanente di light art al mondo nel Roden crater, vulcano nel deserto dell’Arizona, con la quale sempre James Turrel ricrea il buio primario della terra senza luci artificiali lasciando solo la propria scultura luminosa a colloquiare con le notti, le stelle e con possibili viaggiatori dello spazio.

Bastano questi due esempi per dirci quanto sia importante il buio e la notte non solo per gli artisti della light art ma anche per molti di noi che vorremmo rivedere i cieli stellati dell’infanzia e rivedere le lucciole nei campi come fossero stelle.
Così come è straordinaria la realizzazione del Vantablak, altrettanto e non meno importante è la scoperta di CoeLux che ha creato in laboratorio una pellicola di pochi decimi di millimetro in tutto simile agli strati che compongono l’atmosfera. Con questa scoperta si ha la percezione di uno spazio straordinariamente ampio e di una luce incredibilmente naturale. La reale riproduzione fisica di fenomeni atmosferici ottici crea negli ambienti un sole realistico percepito a distanza infinita e circondato da un cielo azzurro chiaro. In ambienti completamente bui, l’effetto è così potente che cambia radicalmente la nostra percezione della realtà permettendoci di vedere come naturale una luce artificiale proiettata nel mondo reale in modo totalmente nuovo e sorprendente. Una ricerca che ha messo in campo studiosi della fisica ottica, della modellistica numerica, della chimica, della scienza dei materiali, dell’architettura, del design. Credo che anche questa ricerca avrà presto tra i suoi alleati, artisti della light art. Anzi guardando la ricerca di Coelux e l’opera Sky light di James Turrel penso che ci siano molte similitudini con un anticipo di diversi anni, in questo caso, dell’arte sulla scienza.
La luce è e sarà soprattutto nei prossimi decenni punto di partenza e di approdo non solo di moltissime ricerche scientifiche, ma anche di applicazioni tecniche utili alla vita di tutti i giorni così come sostanza e forma del lavoro per molti artisti contemporanei. Una luce che, non più e solo, si irradia nell’universo e nel mondo grazie alle stelle, ma che segna, disegna e ridisegna continuamente, con la luce elettrica, le città creando nuovi mondi, nuove visioni e apparizioni, figlie di quel mondo fantastico e utopico che è dentro in ognuno di noi e che l’arte tende a rappresentare in forme reali attraverso il semplice e naturale senso della percezione, senza particolari condizionamenti della storia e della cultura.
Lo spettacolo dell’arte è creazione che si aggiunge alla creazione, è scena e spettacolo delle nostre vite, e la luce, dopo essere stata per secoli il mezzo per evidenziare opere d’arte, uomini e ambienti, dopo il Bauhaus, Picasso, Lucio Fontana, e i tantissimi autorevoli artisti del Novecento (Dan Flavin, James Turrel, Robert Irving, Gianni Colombo ……), è diventata un medium capace non solo di sottolineare, mostrare, rappresentare altro da sé, ma anche di autorappresentarsi. Da comparsa nel grande teatro del mondo e dell’arte, la luce è diventata attrice protagonista e come una scrittura automatica sta riscrivendo con una propria grafia intere pagine della nostra vita e delle città.
Da vettore e veicolo narrativo per una lettura delle forme della materia e dell’umanità, è divenuta una strumento autonomo capace di proprie specifiche narrazioni. Dopo avere rivelato il mondo che conosciamo, la luce, attraverso il lavoro degli artisti, sta rivelando se stessa come mai è capitato negli ultimi decenni.

Con alcuni critici d’arte e osservatori, venuti in visita a questa prima Biennale, abbiamo ragionato sul rapporto tra il buio e la luce in generale, ed anche quindi di questa città e riflettuto sul suo skyline. La luce ha bisogno del buio non meno di quanto il buio abbia bisogno di essere sorpreso dalla luce, senza dimenticare che senza oscurità le luci inciampano tra loro e si dissolvono in generiche luminosità.
Ci sono parti di centro storico parzialmente buie che avrebbero la necessità non tanto di essere rischiarate intensamente e uniformemente, quanto di essere illuminate in maniera mirata, tenue, leggera e sorprendente. Il 18 luglio 2017 è entrato in vigore il nuovo decreto che definisce le linee guida per l’arte negli edifici pubblici e che sottolinea l’opportunità di estendere l’applicazione della vecchia legge sugli edifici pubblici, anche alle piazze, parchi, nuove aree urbanizzate, o comunque destinate ad uso pubblico di pertinenza dei programmi di riqualificazione/rigenerazione urbana, dove l’arte potrebbe interpretare i nuovi luoghi della modernità, attraverso forme e linguaggi contemporanei in grado di dar loro una diversa e qualificata riconoscibilità. È un’opportunità straordinaria per le città.
Tra i tanti assilli del mandato di un sindaco, forse di tutto il mondo, quello di realizzare dei contesti urbani centrali e delle periferie belle, organizzate, vivibili, allegre e sorprendenti, credo che questo sia uno degli obiettivi più difficili da realizzare. L’arte, in quanto madre fertile di tutte le città e in tutti i tempi, è chiamata anche nel contemporaneo, a dar seguito alle opere architettoniche e artistiche che qualificano da secoli la vita nelle città, non meno di quelle che le hanno precedute.

Tra le varie tendenze e pratiche artistiche, la light art può diventare un’opportunità per illuminare e sorprendere il volto delle piazze e delle architetture, così come le molte opere d’arte materiche disseminate nelle città hanno contribuito in passato a migliorare la scena dei centri storici delle grandi capitali e dei piccoli borghi sparsi nel mondo. L’Unesco definisce la luce “una disciplina trasversale fondamentale nel 21° secolo, ed è essenziale che la sua importanza occupi le giovani menti più brillanti di tutte le aree del mondo”.
Questo della light art è un nuovo campo espressivo che si avvale continuamente dei piccoli grandi traguardi scientifici, delle nuove immissioni sul mercato di prodotti illuminotecnici, delle incessanti innovazioni artigianali nel piegare ad uso estetico i componenti materiali che rendono concreta l’immaterialità della luce, e, non ultimo, delle opere e invenzioni artistiche di questi anni. La potenza poetica della luce è figlia di queste irruzioni continue di scienza, tecnica, artigianalità e arte, dove l’uomo ancora e forse ancor più che nel passato fa emergere la propria intelligenza e influenza sulle cose della vita in un percorso laico che non utilizza più la luce per significati altri dalla funzionalità e bellezza, ma che riporta la luce al suo significato originario e cioè di illuminare il mondo e di renderlo più bello, sorprendente e alla portata del nostro sguardo.

Nel tempo della secolarizzazione delle società contemporanee, forse determinata anche da eccessivi quanto non sempre provati racconti della storia religiosa dei secoli passati, dove l’arte delle chiese cristiane si è resa strumento evidente e potente del cristianesimo, la light art può giocare un ruolo finora quasi inedito, introducendo delicati segni di laicità in una Chiesa ha forse bisogno di nuove spiritualità capaci di unire religiosità e laicità, scienza e fede.
 Chi non ricorda le copertine dei libri di religione dove nella parte alta un punto luminoso emanava raggi di luce su tutta la pagina? Fasci luminosi che dovevano rappresentare la potenza e la disseminazione divina sulla Terra. Questo tempo è finito. La luce della religiosità o è dentro anche di noi o non sarà mai in grado di illuminare vie sicure per l’umanità.
L’arrivo sulla scena della cristianità di Madre Teresa di Calcutta, ci ha cambiati un po’ tutti, e da quel momento la coscienza dei cristiani, ma anche dei laici, è stata costretta a specchiarsi e a passare tra i coltelli insanguinati del pozzo senza fine degli orrori dell’umanità, dove il dolore e le sofferenze degli umili reclamavano il bisogno di una nuova cristianità.
Il segno di luce di una recente opera di Fardy Maes (1) …e fu luce – 2017, dedicata alla nascita di Cristo, sottolinea una via d’accesso ad una spiritualità diversa sia per i materiali illuminotecnici utilizzati che per la forma concettuale. La sua comprensione forse si scontra con la storia, le idee e i tracciati spirituali del popolo cristiano, in quanto si fa potente l’assenza dell’immagine di Cristo, ma questo è perché la sua luce non illumina solo i cristiani, ma splende cristianamente su tutta l’umanità. C’è un’opera affascinante e allo stesso tempo intrigante dell’artista iraniano Hossein Valamanesh emigrato intorno agli ottanta in Australia che mi pare possa riassumere il viatico dell’uomo sulla terra e il suo rapporto tra buio e luce. Il titolo dell’opera è Login by login ovvero appartenenza nostalgica. Hossein va nel bosco vicino casa, stende l’unico tappeto persiano che si era portato da Teheran e dopo aver messo una serie di legni disposti a cono al centro del tappeto, con un cerino da fuoco ai legni. Lui controlla il fuoco e al contempo un fotografo riprende la performance.
Dell’opera sono rimasti i diversi scatti fotografici esposti e il tappeto persiano con un buco al centro e la corona nera bruciacchiata intorno.
Con quel gesto Hossein ha voluto ricordare la sua condizione di migrante e al contempo di cittadino di quella terra che l’aveva ospitato. Il fuoco aveva creato un buco nero nel tappeto e contributo a cancellare una parte della propria identità.

La luce del fuoco era servita a cancellare una parte della sua memoria di iraniano per fare un po’ di posto alla nuova identità di australiano. Restava ancora molto di quel tappeto persiano, ma con quel rogo, che aveva eliminato il centro del tappeto, aveva assassinato anche il cuore della sua nostalgia per la Persia, sentendosi pronto per una nuova vita senza rimpianti. La luce del fuoco è servita a creare un buco nero e al contempo il nero di quel piccolo cratere era sufficiente e necessario per illuminare la nuova strada.
Se penso alla light art, e ai tanti artisti che ne stanno facendo la storia, non posso non pensare a Caravaggio, ed anche se l’attenzione critica è sempre rivolta alla luce, in realtà il suo lavoro principale era quello di oscurare lo sfondo creando la condizione perché pezzi di immagini si accendessero in tutto il loro splendore e lucore per il tempo breve di permanenza della luce naturale sulle carni e negli ambienti. Nelle opere di Caravaggio, più che in ogni altro artista, si ha la percezione della mutazione dell’opera in ragione del girare del sole. Le sue tele sono fotogrammi della lunga pellicola cinematografica di quel mondo. Un istante prima e instante dopo quelle tele sarebbero state diverse e lasciandoci a noi il compito di immaginarle. In Caravaggio è il buio che domina le immagini, quasi come un omaggio all’Universo e alle oscurità della condizione sociale e umana, drammaticamente più dolorosa e sottomessa dopo la Controriforma. Oggi, il quadro e la tela non sono indispensabili per le opere degli artisti della Light Art. La tela dei loro lavori sono le città, le piazze così come i grandi e i piccoli spazi di Gallerie e Musei.

VITTORIO ERLINDO, nasce a San Benedetto Po (MN) il 15.2.1947. Già Direttore di biblioteca, direttore di Museo, Dirigente e Docente nelle scuole di pubblica amministrazione, Presidente della Galleria d’arte contemporanea di Suzzara, Consulente della città di Carpi per le arti visive, Direttore di collana di fotografia, Giornalista, Consulente di Aziende private e Pubbliche, come critico d’arte ha curato più cento esposizioni in Italia, Europa, Stati Uniti. Presente come curatore o saggista in decine di pubblicazioni, ama il cinema, l’architettura, la politica che si interroga, la curiosità e l’intelligenza delle donne che non fanno sconti agli uomini e alla società. Tra le sue ultime pubblicazioni, Nulla?, Autore della Mostra Antologica di Gabriele Calzetti, Ideatore e curatore dell’esposizione …e quando il sole cade la città si accende” A Palazzo Ducale, catalogo della Mondadori-Electa nel 2016. Curatore dell’esposizione internazionale “… e fu terremoto. La nascita, la morte e la resurrezione del figlio di Dio tra sacro e profano, Curatore della Biennale Light Art 2018 allestita nel Complesso Museale del Palazzo Ducale di Mantova. Curatore nel 2019, con Fortunato D’amico e Giancarlo Lacchin, di Blau di Elia Festa in collaborazione con il Comune e l’Aquario di Milano. Sempre nel 2019 presenta Gli invisibili al Museo Messina di Milano la mostra di Francesca Romano. Curatore della Biennale Light Art 2020 alla Casa del Mantegna e negli spazi adiacenti al Tempio di san Sebastiano di Leon Battista Alberti di Mantova.